Il quorum è rimasto una chimera e gli avvoltoi si sono alzati in volo. E non solo dalle parti delle destre o di Confindustria, la cui ostilità era esibita e praticata, ma anche da quella dei liberal-liberisti e riformisti, rimasti finora silenti, ma che non vedevano l’ora di provare a fare la pelle a Landini e Schlein e, soprattutto, di riproporre se stessi, le loro scelte “responsabili”, il riarmo e la comprensione per Israele.
Beninteso, sarebbe sciocco ridurre la discussione a queste considerazioni, ma non meno sbagliato sarebbe ignorare il contesto nel quale i referendum sono nati e si sono svolti.
I quesiti referendari erano controcorrente non solo rispetto alla politica del governo delle destre e degli interessi delle associazioni padronali, ma anche rispetto alle scelte politiche del centrosinistra, di cui il Jobs Act rappresenta l’esempio più lampante. Non è stato un caso, per esempio, che i movimenti e il sindacalismo conflittuale si siano sentiti più a loro agio di molta parte del sindacalismo confederale con i quesiti referendari.
I quattro quesiti sul lavoro, al quale si è poi aggiunto il quinto sulla cittadinanza, rappresentavano un evidente tentativo di appellarsi alla base per forzare una situazione bloccata al vertice, a livello politico e istituzionale. Nelle aule parlamentari non ci sono i numeri e non solo a causa delle destre.
E allora, se non vogliamo abbandonarci alle emozioni del momento, dobbiamo guardare all’esito del voto da questa prospettiva.
Primo, non ci sono giri di parole che tengano, non raggiungere il quorum e non raggiungerlo nettamente, con un’affluenza che a livello nazionale si è fermata al 30,6% (estero escluso) e che in nessuna regione e in nessuna grande città ha superato il 50%, è una sconfitta politica secca. Lo è perché così viene percepita, inevitabilmente, ovunque.
Secondo, il terreno referendario è un terreno ostico di per sé, anche oltre l’ormai fisiologico astensionismo. Per i quesiti sul lavoro, poi, lo è in modo particolare, come ci ricordano i casi del 1985 (scala mobile), che raggiunse il quorum, ma poi vinse il No, e del 2003 (art. 18), quando l’affluenza si fermò al 25,5%. In generale, dopo il 1995 nessun referendum popolare ha più raggiunto il quorum, salvo quelli sull’acqua pubblica del 2011, che però erano nati su iniziativa di un movimento che per anni ha lavorato e seminato sui territori. Gli attuali referendum, invece, sono stati il frutto di una decisione da parte di organizzazioni e la campagna referendaria non è mai riuscita ad andare significativamente oltre il perimetro già raggiungibile dalle organizzazioni. Anzi, a volte c’era pure qualche freno a mano tirato.
Terzo, un elemento di particolare criticità è rappresentato dal numero alto di No sul quesito sulla cittadinanza. Mentre per i quattro quesiti sul lavoro i Sì si avvicinano al 90%, per il quinto sono fermi al 65% e questo indica un problema che non possiamo liquidare puntando il dito sul M5S, che non aveva dato indicazione di voto sul quinto quesito, ma che coinvolge anche mondi a noi contigui.
Quarto, nonostante silenzi, boicottaggi, astensionismo e freni a mano tirati, alla fine 12 milioni di persone hanno votato Sì ai quattro quesiti sul lavoro, mentre sono quasi 9 milioni sul quesito della cittadinanza. E di questi milioni occorre avere cura.
Non siamo stati noi a decidere i referendum, ma con convinzione abbiamo invitato al voto per cinque sì, perché le battaglie giuste vanno combattute, anche se difficili. Ma alla fine conta anche l’efficacia, la capacità di spostare e da questo punto di vista servirà una seria riflessione sui terreni di conflitto che si scelgono. Vale per tutto, non solo per i referendum. Vale per guardare avanti, non per piangere sul latte versato.
Per il resto, attenti agli avvoltoi e ripartiamo da qui.
Pubblicato su Milano in Movimento il 10 giugno 2025