Noi l’8 e 9 giugno non staremo a casa, ma andremo ai seggi e metteremo 5 sì nelle urne. Lo faremo senza illuderci che un referendum possa sostituire il conflitto sociale, premessa necessaria di ogni cambiamento sostanziale, ma nella consapevolezza che vada praticato ogni terreno utile per contrastare un modello sociale che costringe milioni di persone alla precarietà, al sottosalario e all’esclusione. E, oggi e qui, i quattro referendum sul lavoro e quello sulla cittadinanza rappresentano uno di questi terreni.
Sono ormai tre decenni che in Italia si legifera per rendere il lavoro più precario e i lavoratori e le lavoratrici più deboli, più docili e, in ultima analisi, più a buon mercato. Un processo che ha coinvolto indistintamente governi di centrosinistra e di centrodestra. Anzi, il capostipite, cioè il “pacchetto Treu” del 1997, fu opera del governo Prodi. Da allora fu un susseguirsi di deregolamentazioni del mercato del lavoro e di moltiplicazione di forme contrattuali precarie, ma la preda grossa sarebbe rimasto l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970), che prevedeva il reintegro al posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato nelle imprese con più di 15 dipendenti.
I ripetuti tentativi dei governi Berlusconi di abolire il reintegro si scontrarono, però, con la resistenza delle piazze e, alla fine, ci volle un governo targato Pd per manomettere l’articolo 18. Il Jobs Act di Renzi del 2014 impose la sostanziale fine del reintegro e la monetizzazione dei licenziamenti ingiustificati.
Ovviamente, la storia non finì con il Jobs Act e i processi di precarizzazione e limitazione dei diritti e delle libertà di lavoratrici e lavoratori sono continuati imperterriti, con la sola timida eccezione del decreto dignità del 2018. I risultati sono sotto gli occhi di tutt3, con la precarietà per milioni di giovani e non solo, la decrescita del valore reale di salari e stipendi, l’inasprimento della disuguaglianza sociale e una politica economica basata sui bassi salari, comprese forme di sfruttamento che si spingono fino al lavoro gratuito o semi-gratuito.
Questo è il contesto nel quale si inseriscono i quattro quesiti referendari sul lavoro.
I primi due quesiti intervengono sulla disciplina del licenziamento. Il quesito n. 1 intende ristabilire il reintegro al posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato nelle imprese con più di 15 dipendenti. Il quesito n. 2 riguarda, invece, le imprese con meno di 16 dipendenti e prevede l’aumento delle tutele in caso di licenziamento illegittimo, abrogando il limite massimo di sole 6 mensilità di risarcimento.
Il quesito n. 3 riguarda i contratti a termine, che attualmente possono essere stipulati per 12 mesi senza alcuna motivazione. Il quesito intende ristabilire l’obbligo delle causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato.
Il quesito n. 4 interviene sulla sicurezza sui luoghi di lavoro. Oggi l’impresa che subappalta non deve rispondere alle inadempienze del subappaltatore. Il quesito intende, dunque, abrogare le norme vigenti che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante.
Il quesito n.5 parla di diritto alla cittadinanza. Oggi in Italia esistono tre percorsi per ottenere la cittadinanza italiana: per residenza, per matrimonio e per nascita. Questo referendum si rivolge al primo percorso, accorciando da 10 a 5 gli anni di residenza necessari per l'ottenimento della cittadinanza. Votando sì sarà possibile per circa 2.500.000 persone regolarizzare la propria posizione, permettendo anche ai propri figli, nati e cresciuti qui, di veder riconosciuta la loro posizione.
Non è vero che verranno riconosciuti i diritti alla nascita di coloro che nascono in Italia da genitori stranieri, perché rimane il principio dello ius sanguinis, e non è vero che sarà più facile ottenere la cittadinanza, perché rimangono gli altri requisiti (contratto di lavoro, reddito minimo, idoneità alloggiativa ecc.). Ma questo referendum rimane una tappa fondamentale per portare avanti il percorso di riconoscimento dei diritti a tutti e tutte coloro che nascono, studiano, lavorano e vivono questo territorio.
Sembra dunque abbastanza chiaro perché questi cinque referendum non piacciono nei palazzi. E non solo a destra.
Lo schieramento contrario è massiccio, ma evitano come la peste di fare una battaglia aperta per il no. Sanno bene che in caso di raggiungimento del quorum la vittoria dei sì è praticamente certa, come peraltro confermano quasi tutte le proiezioni disponibili. E allora, preferiscono censurare, silenziare e, soprattutto, cavalcare e incentivare l’astensionismo.
Per questo, la cosa giusta da fare, oggi e qui, è impegnarci e agire perché più persone possibili vadano a votare l’8 e 9 giugno.
La Redazione di Milano in Movimento
Pubblicato su Milano in Movimento il 26 maggio 2025