Ma a che cosa serve questa Europa? Un interrogativo né nuovo né originale, ma che oggi, anche alla luce della gestione della vicenda greca e del dramma profughi, si pone in maniera decisamente diversa. Cioè, non si può fare finta che il passare del tempo sia indifferente, che l’accumulo di quantità non si trasformi prima o poi in qualità e che, di conseguenza, la più importante delle domande, almeno per noi, cioè se un’altra Europa sia effettivamente possibile e in che termini, non necessiti oggi perlomeno una forte ridiscussione.
Beninteso, non si tratta di riscoprire per l’ennesima volta l’acqua calda. Che il processo europeo fosse viziato all’origine dall’egemonia liberista e che la vittima sacrificale fosse il mitico modello sociale europeo lo sapevamo già. Sin dai tempi dei social forum i movimenti sociali avevano infatti puntato il dito contro l’Europa liberista e fortezza che abbatteva le frontiere per i capitali e innalzava muri contro le persone, che imponeva la privatizzazione dei servizi pubblici e la deregolamentazione del mercato del lavoro.
No, non ci eravamo illusi sulla natura del processo di unificazione europea, anzi, ma eravamo –e siamo- anche convinti che il terreno del conflitto e la dimensione di un progetto sociale e politico alternativo fosse il livello continentale, perché il mero ritorno alle opzioni nazionali avrebbe semplicemente spalancato le porte ai nazionalismi e alle destre di ogni risma.
Ma da allora molta acqua è passata sotto in ponti e nel frattempo è arrivata anche la crisi. Le politiche dell’austerità hanno funzionato da acceleratore per una serie di dinamiche deleterie e così, ora ci troviamo di fronte a un’Europa dove le disuguaglianze si sono accentuate e dove il potere decisionale effettivo è accentrato in una ristretta cerchia sia sul piano sociale che su quello politico-istituzionale. In questa Europa non sono uguali né le persone né le nazioni.
L’espressione forse più nitida di questo progressivo svuotamento democratico, peraltro in linea con le dinamiche prevalenti nei singoli paesi, sono quella specie di ordini di servizio regolarmente emanati da Bruxelles o Francoforte in materia non solo di bilancio, ma anche di politica economica e sociale, cioè di politica tout court. Vi ricordate, per esempio, la famosa lettera della Bce al governo Berlusconi dell’agosto 2011? Ebbene, Berlusconi si adeguò e così fecero anche tutti i successivi governi, da Monti fino a Renzi. E trattamento analogo l’hanno ricevuti tutti gli stati in difficoltà o semplicemente meno forti.
Ma il caso più eclatante e paradigmatico è ovviamente la Grecia, che nel 2010 è stata di fatto commissariata. Da quel momento i greci non hanno più governato il loro paese e l’esecutivo e il parlamento ellenici dovevano soltanto legittimare le decisioni prese dalla Troika (Commissione europea, Bce, Fmi), che aveva addirittura piazzato i suoi funzionari negli uffici ministeriali, ed occuparsi di garantire l’ordine, cioè di reprimere le proteste. Il risultato è stato socialmente disastroso ed economicamente regressivo, mentre la situazione debitoria si è ulteriormente aggravata. E difficilmente poteva andare diversamente, visto che il piano della Troika non puntava tanto a salvare la Grecia, ma piuttosto a mettere in sicurezza le banche creditrici, anzitutto tedesche e francesi. E, ciliegina sulla torta, la Troika ha persino sbagliato tutti i suoi conti, come ha confermato persino il rapporto del parlamento europeo del 2014: “La prima e più evidente sorpresa è che le premesse del primo programma di aiuti del 2010 si sono dimostrate erronee”.
Eppure, nulla è cambiato. Anzi, visto che i greci si sono ribellati, affidando il governo a Syriza, ora chi comanda in Europa si comporta come se la Grecia fosse un suo protettorato, perseguendo esplicitamente l’obiettivo del regime change. Insomma, o fai come dico io oppure ti faccio fuori. E in questo quadro anche un referendum popolare, cioè un normalissimo istituto democratico, diventa un insopportabile delitto.
Il debito greco non c’entra, vista la sua entità tutto sommato modesta e considerato il fatto che è comunque impagabile. C’entra invece la politica, cioè il messaggio che non è permesso a nessuno modificare lo status quo e mettere in discussione il dogma liberista e i rapporti di potere costituiti.
C’è un vulnus democratico enorme quando si afferma con la forza dei fatti che l’opinione dei diretti interessati, i famosi cittadini, è secondaria, se non dannosa. Con l’aggravante che questa deriva viene giustificata da un progetto superiore, l’Europa, che appare sempre più lontano e meno credibile. Infatti, la politica economica e sociale porta benefici soltanto a una minoranza, mentre la maggioranza vede peggiorare la propria condizione. E non si intravede neppure una chiara strategia di fuoriuscita dalla crisi economica e sociale. La politica estera europea semplicemente non esiste e tutte le decisioni che contano vengono dunque prese in ambito Nato, dove però comandano gli Usa e i loro interessi strategici (caso Ucrania-Russia dixit). C’è un intero mondo in sconvolgimento e in guerra e le migrazioni assumono proporzioni bibliche, ma l’Europa non riesce che immaginarsi operazioni di polizia, blocchi navali e nuovi muri.
Insomma, questa Europa a che cosa serve? Così com’è serve solo a pochi, senza dubbio. E ora si mostra pure sempre più impermeabile alla dialettica democratica e sempre più autoritaria. In altre parole, sul piatto non c’è soltanto la domanda “se” cambiare, ma anche “come” cambiare. Cioè, è ancora possibile cambiare l’Europa oppure occorre romperla?
Lo so, una domanda pesante, ma ormai ineludibile, anche perché adesso ci sono in campo forze e movimenti che non solo intendono cambiare l’Europa, in senso sociale e democratico, ma soprattutto che sono sufficientemente forti per porre il problema. Una si chiama Syriza ed è al governo, l’altra si chiama Podemos ed esprime già i sindaci di Barcellona e Madrid.
Quindi, quello che succederà in Grecia domenica, quando si voterà per il referendum, e nei giorni che seguiranno ci farà capire quale sarà il terreno con il quale dovremmo confrontarci. In ogni caso, la situazione non sarà più quella di prima.