La Milano degli ultimi anni ha sempre alternato periodi più o meno lunghi di piazze vuote e improvvise esplosioni di partecipazione ed è facile, facilissimo cedere alla tentazione di applicare questo schema anche al corteo del 6 settembre. Eppure, in quella giornata c’era qualcosa di diverso, perché era un corteo sicuramente alimentato da un’ondata emotiva, come sempre accade quando toccano i simboli e il vissuto personale, ma era anche un corteo molto politico, che ha puntato il dito sia contro le mire autoritarie del governo nazionale, sia contro una politica cittadina che favorisce gli speculatori e che a colpi di gentrificazione espelle i ceti popolari, comprese parti del famoso ceto medio. E il fatto che Manfredi Catella si sia sentito in dovere di attaccare pubblicamente quella manifestazione rappresenta una conferma dell’impatto politico del 6 settembre.
Ma se ci fermassimo a questa fotografia, senza fare i conti con le contraddizioni di quella giornata, faremmo non solo un torto a quelle 80mila persone scese in piazza, ma soprattutto non indagheremmo le potenzialità e le possibilità che quella partecipazione ha evocato.
Era un corteo di molti cortei, in realtà, e il riferimento non è semplicemente al corteo degli spazi sociali e dei movimenti, poi confluito in quello generale. Ma erano molteplici le motivazioni presenti, espresse anche con prese di posizioni diverse, unite tuttavia in un comune bisogno di (ri)prendere parola dopo tre anni di governo Meloni e 14 anni di centrosinistra meneghino, che di fatto ha delegato l’urbanistica ai grossi capitali finanziari e immobiliari, consentendo agli investitori privati di costruire grattacieli con una semplice Scia o spostando le valutazioni urbanistiche nella più mansueta commissione paesaggio, ma totalmente incapace di trovare soluzioni per il Leoncavallo.
C’erano molte motivazioni, ma da un punto di vista politica due grandi campi di ragionamento hanno convissuto in quella giornata. C’era chi teorizzava una sorta di politica dei due tempi, prima combattiamo le aggressioni delle destre di governo e poi, in un tempo non meglio specificato, ci occupiamo di Milano. E c’era chi riteneva, come chi scrive, che non c’è spazio per la politica dei due tempi, ma che l’unica maniera anche per resistere e fermare le destre sta nel fare i conti fino in fondo, oggi e qui, con il modello Milano, perché cos’è quel modello se non la prosecuzione del modello di città già delineato dalle precedenti amministrazioni comunali di centrodestra?
Il 6 settembre le differenze, contraddizioni e sfumature hanno convissuto grazie a una dinamica di mobilitazione più grande, ma non hanno dialogato. L’aveva peraltro già mostrato la partecipatissima assemblea cittadina del 2 settembre, dove gli interventi non dialogavano e non confliggevano, ma dove semplicemente ogni soggetto ha esplicitato il proprio posizionamento.
Se vogliamo guardare avanti e considerare il 6 settembre un punto di partenza e non una felice parentesi, dobbiamo fare qualche passo in più e aprire una riflessione sulle convergenze possibili e necessarie. Non mi riferisco tanto ai due grandi campi di ragionamento, ma a quello che comprende i movimenti e gli spazi sociali, anche perché siamo tra i principali bersagli della stretta repressiva del governo e perché la spada di Damocle degli sgomberi è sempre lì, come ci ha ricordato anche la recente vicenda del Cantiere.
E poi c’è il Leo al quale la Giunta Sala propone di andare a San Dionigi. Anche i sassi sanno che quella proposta è non solo indecente, ma anche irrealistica e ora l’ha ribadito anche il corteo del 6 settembre. Insomma, il posto del Leo è in via Watteau e lì deve tornare.
Come prima del 6 settembre, anche adesso, in ultima analisi dipende solo da noi.
Pubblicato su Milano in Movimento l’11 settembre 2025
credits: foto di Vincenzo Lullo