Bisogna urgentemente rompere quella insopportabile cappa di conformismo e ipocrisia che impedisce ogni serio dibattito pubblico su come l’evento Expo tratta, o meglio, maltratta i diritti dei lavoratori. E non mi riferisco soltanto alla vicenda dei controlli preventivi di polizia che decidono chi può e chi non può lavorare sul sito, poiché questo è semplicemente l’ultimo caso di una lunga serie, che nel suo insieme esplicita una visione del mondo del lavoro tutto low cost e senza diritti.
Il Governo ha presentato Expo come un “fiore all’occhiello del nostro paese”, come una finestra sul futuro dell’Italia. E quindi non è solo lecito, ma persino doveroso interrogarci sull’idea di futuro che ci viene proposto.
Cominciamo dall’inizio, cioè dal Protocollo del 23 luglio 2013, firmato da Expo 2015 S.p.A., società a totale controllo pubblico (Ministero, Comune, Regione, Provincia, Camera Commercio), e da Cgil, Cisl e Uil. Un accordo altamente significativo, poiché rappresenta essenzialmente un’operazione di dumping sociale. Infatti, la tipologia contrattuale prevalente non è il normale contratto a termine, bensì un apprendistato dove gli obblighi formativi sono ridotti all’osso, potendo essere assolti con la formazione “a distanza” e “on the job”, e dove le qualifiche professionali appositamente introdotte, come quella di “Operatore di Grandi Eventi”, assomigliano più a una foglia di fico che a una prospettiva professionale credibile. Insomma, il tutto appare terribilmente strumentale e finalizzato unicamente ad abbassare i livelli salariali.
Ma si va anche oltre, permettendo l’uso degli stage, a 516 euro al mese, e soprattutto ricorrendo massicciamente al lavoro gratuito. Beninteso, il Protocollo parla di “volontariato”, ma il fatto che non si citi nemmeno la legislazione in materia e che si regolamenti invece l’attività dei volontari in un accordo sindacale la dice lunga sulla sua natura più che ambigua.
Nel giugno 2014 arriva poi l’Avviso comune, voluto da Regione Lombardia e firmato dalle associazioni padronali e dai sindacati confederali, che estende la possibilità di deroghe contrattuali nello spazio e nel tempo. Anche in questo caso si punta sul contratto di apprendistato, ma con l’aggiunta di un pizzico di dumping sul dumping, cioè l’”apprendistato in somministrazione”.
Abbiamo citato questi due accordi non perché siano gli unici fatti di rilievo, ma perché fissano nero su bianco la logica con la quale Expo guarda al lavoro. Carta canta, come si suol dire, e questa vale anche per il sindacato confederale, che per convinzione o per debolezza si è ritagliato il ruolo poco esaltante del limitatore dei danni.
Se queste sono le premesse è evidente che non dobbiamo meravigliarci che i lavoratori della Scala siano stati sottoposti a un ignobile linciaggio mediatico o che sia stato messo in moto un sistema di controlli di polizia, come se fosse la cosa più normale del mondo, sebbene la violazione dei diritti costituzionali sia palese.
Ovviamente, il low cost e l’assenza di diritti vale solo per quelli in basso. Tutt’altra musica suona per quelli in alto, dove sugli stipendi non si risparmia e dove essere indagati per evasione fiscale e appropriazione indebita non costituisce certo un impedimento per continuare a fare il Presidente di Expo 2015 S.p.A.
Expo finirà, ma non necessariamente la sua visione del lavoro. Anzi, se questa ne uscirà indenne, senza contrasto significativo e persino senza dibattito pubblico, allora diventerà un modello da imitare e moltiplicare. Questa è la posta in gioco e per questo non sono più ammissibili i troppi silenzi.
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano il Manifesto il 10 giugno 2015